Breve storia dei movimenti secessionisti nel Mediterraneo
Catalogna, Cipro, Italia e non solo: una mappa per comprendere la politica della regione.
9 Novembre 2017, Barcellona. Una data impressa nella memoria di molti. Accendere la televisione in quei giorni frenetici voleva dire solo una cosa: essere travolti dalle notizie riguardanti “l’indipendenza” della Catalogna, celebrata tramite un contestato referendum confermato dalla stragrande maggioranza dei cittadini della comunità autonoma[*]. In molti, influenzati dal fascino di quello specifico contesto, iniziarono a supportare le istanze proposte dai rappresentanti della Catalogna. Il Governo centrale di Madrid, allora guidato da Mariano Rajoy, però non la pensava allo stesso modo, considerando gli indipendentisti alla stregua di rivoluzionari armati. L’uso della violenza delle forze armate contro di essi fu solo il primo passo utilizzato dal Partito Popolare per placare gli animi dei catalani. Ad esso seguì infatti l’utilizzo dello strumento giudiziario contro i principali leader indipendentisti, tra cui ricordiamo il più famoso Carles Puigdemont che oggi ricopre la carica di Eurodeputato e risiede in Belgio, essendo di fatto un “rifugiato politico”.
Questa vicenda è solo la prima di una lunga serie. Il secessionismo, infatti, è diffuso in molti paesi della regione che sono stati raccontati in questa newsletter. L’obiettivo di questo articolo è quindi quello di rispondere ad alcune domande:
Cosa si intende per Secessionismo?
Dove si trovano i principali movimenti secessionisti del Mediterraneo?
Che considerazioni trarre per il futuro?
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1. Cosa si intende per Secessionismo?
Si sa, nell’ambito delle scienze sociali la definizione puntuale dei termini possiede una certa importanza. Numerosi studiosi che dedicano buona parte della loro vita allo studio di una determinata materia cercano di elaborare la definizione che meglio riesce a rappresentare la realtà di un fenomeno. E così è anche per il secessionismo, un termine -come logico aspettarsi- ampiamente dibattuto tra gli esperti. In questo articolo verrà presa in considerazione quella elaborata da J. R. Wood secondo cui:
Il secessionismo è un programma politico basato sulla domanda di ritiro di un territorio delimitato da uno Stato riconosciuto a livello internazionale con l’obiettivo di creare un nuovo Stato in quel territorio che dovrebbe ottenere il riconoscimento formale da altri Stati (e dalle Nazioni Unite).
Il caso catalano esposto nella parte introduttiva sembra rientrare perfettamente all’interno di questa definizione. Ma, come vedremo, le vicende di Carles Puigdemont non sono le uniche ad aver infiammato i cuori degli indipendentisti all’interno del Mare Nostrum.
2. Dove si trovano i principali movimenti secessionisti del Mediterraneo?
È chiaro che in questo articolo non è possibile menzionare tutti i principali movimenti secessionisti del Nord Africa e dell’Europa Mediterranea, pertanto verranno presi in considerazione solamente i principali, con le loro particolarità e specificità.
Il movimento delle Leghe, una storia del Nord Italia
Il primo caso menzionato non poteva che essere quello di “casa nostra”, il famoso Movimento delle Leghe iniziato durante gli anni ‘80 coinvolgendo alcune tra le principali regioni del Nord Italia (Veneto, Piemento e Lombardia tra tutte). Le Leghe si facevano portavoci di un’accesa politica identitaria, a tratti razzista, in contrapposizione al Meridione considerato “parassitario”. Solo a partire dalla metà degli anni ‘90 -dopo essersi riunite nella Lega Nord allora guidata da Umberto Bossi- il loro obiettivo politico diventerà più chiaramente secessionista. La creazione di una nuova realtà politica, denominata Padania, è stata infatti il cavallo di battaglia centrale della Lega, progetto mai avveratosi e trasformatosi negli anni in più blande istanze di autonomia economica. La trasformazione finale, idealmente avvenuta dopo le fallimentari elezioni politiche del 2013 in concomitanza con l’elezione di Matteo Salvini a segretario leghista, ha visto la Lega spostarsi su posizioni nazionaliste e anti-immigrazione, seguendo per altro un trend mondiale di partiti ispirati a posizioni no-global. Almeno per ora, l’esperienza leghista deve essere quindi considerata un chiaro fallimento del secessionismo europeo.
Cipro: tra secessionismo ed influenza turca
In un precedente numero della newsletter che potete trovare a questo indirizzo ho cercato di spiegare qual’è l’attuale situazione dell’isola situata a sud della Grecia. In pratica, a partire dal 1983 il paese è diviso in due zone che a tratti sembrano operare come due Stati diversi: la Repubblica di Cipro, ovvero il paese formalmente riconosciuto da tutti gli Stati eccetto la Turchia, e la Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta formalmente solo da Ankara. Ma come si è arrivati a questa divisione?
Nel 1974 la Grecia, allora governata dalla giunta militare dei generali (per conoscere la loro storia vi consiglio questo articolo di MedFiles), decise di invadere l’isola di Cipro, proclamando la nascita della Repubblica Ellenica di Cipro. La Turchia entrò nel conflitto per difendere la comunità turca residente nell’isola e da quel momento la sua influenza nel paese è rimasta stabile. Sette anni dopo l’invasione greca vi è stata una proclamazione di indipendenza unilaterale da parte degli abitanti di Cipro Nord, creando appunto la già menzionata Repubblica Turca di Cipro Nord. L’ONU non ha formalmente riconosciuto questa parte dell’isola come Stato a sé stante e lo stesso hanno fatto tutti gli altri paesi ad eccezione, ovviamente, della Turchia.
Il caso cipriota si discosta almeno in parte dalla definizione di Woods per un ovvio motivo: la proclamata indipendenza non è un processo nato dal basso ma vi è stata una chiara influenza politica di un paese esterno, la Turchia appunto. La strumentalizzazione della protezione dei diritti umani di una comunità -come fatto da Ankara per giustificare la propria espansione a Cipro- serve a dare “un volto umanitario” a quella che de facto è un’occupazione militare a tutti gli effetti.
Il Nord Africa: Algeria, Egitto, Marocco
Anche il Nord Africa non rimane escluso dalla lista dei paesi che hanno dovuto fare i conti con movimenti secessionisti. In Algeria, per esempio, vi è una componente berbera che storicamente si è fatta promotrice di istanze secessioniste, anche se ad oggi la scelta del governo centrale sembrerebbe essere più orientata a garantire loro un maggiore riconoscimento all’interno di un progetto politico pluralista. Il movimento nazionalista berbero non è però confinato alla sola Algeria poiché anche paesi come il Marocco e, soprattutto, il Mali hanno affrontato in questi ultimi anni le istanze di movimenti secessionisti. In quest’ultimo paese il gruppo dei Tuareg ha tentato di fondare un Stato indipendente nel 2012 chiamato Azawad che, ovviamente, non ha ricevuto il riconoscimento dei paesi e delle organizzazioni più importanti della regione tra cui l’Unione Africana, l’Algeria e l’ex potenza coloniale francese. Il sogno secessionista di questa popolazione nomade è iniziato negli anni ‘60 subito dopo l’indipendenza del Mali ma sono stati necessari cinquant’anni affinché il loro progetto potesse compiersi. L’esperienza dello Stato dell’Azawada è però durata meno di un anno. Alla fine del 2012 il rappresentante politico dei rivoltosi -il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad- ha infatti siglato un accordo con il Mali per ripristinare l’integrità nazionale. Alcune fratture all’interno del movimento hanno contribuito alla fine dell’Azawad.
Anche il Marocco all’interno dei suoi confini nazionali ha dovuto affrontare la sfida posta dalle minoranze berbere. Nella parte nord del paese, chiamata anche zona del Rif, vi abitano i cosiddetti Rifiani, un gruppo etnico berbero che nel 2016-2017 ha fatto esplodere una protesta di massa contro il governo marocchino, ricordata come Movimento Hirak Rif, in cui si chiedeva maggior tutela per l’identità berbera, una demilitarizzazione della regione e il rilascio di prigionieri politici. Come riportato da un lungo articolo pubblicato dal Moroccan Institute for Policy Analysis, non si è giunti ad alcuna certezza sull’identità secessionista o semplicemente autonomista di tali movimenti poiché all’interno delle proteste parrebbe vi sia stata un’infiltrazione di movimenti separatisti.
L’Egitto è l’ultimo paese che presenta alcuni casi interessanti. Nella parte sud del paese, più precisamente nel confine con il Sudan, risiede una popolazione chiamata nubiana, ovvero un gruppo etno-linguistico autoctono che risiede nell’omonima regione della Nubia. Le stime sulla loro composizione numerica non sono molto precise, ma in ogni caso il loro numero dovrebbe essere compreso tra i 500,000 e i 5 milioni di individui. Storicamente le loro istanze non rientrano nella definizione di secessionismo data all’inizio dell’articolo, ma il Governo del Cairo ha fatto poco negli anni per ascoltare le loro rivendicazioni di autonomia. Un noto esponente della comunità dei Nubiani, Haggag Oddoul si è a lungo battuto per i diritti di questo popolo, in particolare per “difendere le loro culture, le loro lingue e il loro credo” (Atlantic Council). La sua battaglia che avrebbe dovuto culminare con l’inserimento di alcune norme nella nuova costituzione egiziana del 2014 che tutelassero i nubiani è però fallita, dato soprattutto il disinteresse dell’élite del Cairo di assecondare tali richieste. Il fatto che negli anni le proteste di questa comunità siano sempre state soppresse, lascia intendere che le autorità egiziane percepiscano i Nubiani come una minaccia alla sicurezza invece che una popolazione da proteggere. Non è da escludere quindi che in un futuro non troppo remoto il pugno di ferro del governo del Cairo porti i Nubiani verso una radicalizzazione delle loro istanze.
3. Qualche considerazione sul presente e sul futuro
Il primo obiettivo di questo articolo era quello di mettere in evidenza la prima criticità in cui ci si imbatte quando si parla di secessionismo, autonomia, federalismo. Questi sono concetti simili, è vero, ma vi sono delle differenze così sostanziali che richiedono accortezza nel loro uso. Oltre a ciò si aggiunge un altro problema, ovvero quello di inquadrare le sfaccettature di un fenomeno sociale all’interno de definizioni astratte. Parlando in termini più concreti, è difficile stabilire con certezza se, ad esempio, la comunità dei Rifiani sopra menzionata abbia avanzato nel 2016 un progetto secessionista o se le loro proposte politiche si siano limitate semplicemente alla richiesta di maggiori tutele e di autonomia. Ciò non ha delle implicazioni solamente teoriche poiché abbiamo visto come in tante occasioni la natura delle rivolte sia stata un fattore centrale nel determinare le risposte dei governi; si pensi per esempio alle misure drastiche utilizzate dal governo spagnolo nel 2017. Secondo le posizioni ufficiali della classe dirigente spagnola esse sono state adottate per contrastare i movimenti catalani che avevano lo scopo di minare le fondamenta dello Stato. Sarebbe stato difficile pensare a misure così dure nel caso in cui il Referendum proponesse solo una maggiore “autonomia” politica ed economica. C’è anche da dire, però, che a volte non è tanto la natura di una rivendicazione, quanto piuttosto la sua percezione (o la sua strumentalizzazione) a generare un certo tipo di risposta da parte dei governanti e delle forze armate. Ma questo è un altro discorso.
In secondo luogo, la mappa del secessionismo nel Mediterraneo ci pone davanti ad un’evidenza incontrovertibile: questo fenomeno continua a caratterizzare il presente di questa regione. E probabilmente anche il futuro. Per motivi di sintesi sono stati esclusi numerose regioni, comunità, popolazioni che nella storia contemporanea del Mare Nostrum hanno fatto sentire la propria voce, talvolta addirittura “abbracciando le armi”. A riguardo è interessante un osservazione, il Secessionismo sembra essere trasversale -seppur con tutte le peculiarità del caso- alle diverse culture e religioni che si affacciano sul Mediterraneo, in particolare alla divisione Occidente-mondo musulmano. Citando l’ultimo lavoro di Francis Fukuyama, Identity, si potrebbe attribuire questo fenomeno a una dinamica insita nell’essere umano: il desiderio che la nostra dignità venga riconosciuta da parte degli altri. Le rivendicazioni dei gruppi secessionisti potrebbero quindi essere intese, da questa prospettiva, come delle rivendicazioni identitarie, lasciando alle domande di autonomia politica e maggiori risorse economiche la dimensione solamente più percettibile e tangibile di un fenomeno più ampio e profondo.
In terzo luogo è interessante analizzare le risposte dei governi occidentali alle istanze secessioniste. Per molto tempo, infatti, una certa corrente di pensiero euro-centrica ha visto nell’utilizzo di strumenti repressivi contro le manifestazioni di piazza un qualcosa di “esotico”, adottato solo da “paesi-sottosviluppati” in Oriente. La realtà -e i fatti accaduti in Catalogna ne sono la prova più evidente- è però un’altra. Anche in Occidente i governi non hanno esitato talvolta a reprimere con la violenza le istanze secessioniste. Non si tratta qui di trovare colpe e colpevoli, non è certamente un obiettivo di questo articolo. Si tratta invece di riportare quello che è un dato di fatto: anche le Democrazie occidentali non sono allergiche alla violenza di Stato. E questo, a prescindere dalla legittimità o meno delle richieste catalane, è un problema.
In quarto luogo, dando una rapida occhiata alla lista dei movimenti che hanno fatto la storia del secessionismo mediterraneo (compresi i tanti esclusi come i Beduini situati nella zona nord del Sinai in Egitto) è evidente che -ad ora- il centralismo vince sul secessionismo. In nessun caso movimenti di questo tipo hanno infatti portato alla nascita di nuove entità statali durevoli. I motivi sono molti, ma è chiaro che l’asimmetria di risorse e la differenza organizzativa tra gli Stati centrali e i movimenti secessionisti gioca un ruolo importante. Inoltre, “creare” da zero le istituzioni di uno Stato è un processo delicato e complesso, che necessità di una forza politica fortemente legittimata e di grandi competenze che talvolta mancano ai secessionisti. Un conto è criticare, un conto è costruire, ma questa lezione avrebbe già dovuto apprenderla guardando la politica europea.
[*] Per onestà intellettuale bisogna ricordare che la veridicità del risultato ad oggi è ancora contestato.
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